Primi giorni di master. Sono impiguinata alla fermata dell’autobus.
Piove. Di solito l’autobus è già lì quando arrivo, oggi, giustamente, no. È
anche i primo giorno di scuola, c’è un diffuso brulicare di adolescenti e
pre-adolescenti in vari stadi di brufolazione, mode ridicole e altri malanni
tipici di quell'età. Si incontrano, si abbracciano, urletti tra ragazze.Tutto
con gli ombrelli. Accanto a me un gruppetto di ragazze, 15-16 anni. Al terzo
ombrello che mi arriva in faccia, mi giro e sto per lanciarmi in un'orazione,
con un incipit bello sonoro,tipo: Usque tandem abutere patientiae nostrae,
puella? La ragazza mi precede: "Mi scusi signora." E mi fa quel
sorrisetto che facevo anche io quando volevo evitarmi il predicozzo da un
adulto.
Supero il trauma. Forse. Comincio
a pregare che mi tornino dei brufoli (sarò accontentata nella mia preghiera,
ovviamente).
Al rientro, ancora pinguina,
ancora lunedì. Tutta in nero, bitch resting face di ordinanza. Aspetto
l’autobus per rientrare, perché tutto succede alle fermate del bus, l’incontro
con il mondo, con il disagio. Sembro particolarmente adulta, particolarmente
scazzata, me lo dico da sola. Indi ragion per cui non inorridisco tropo quando
mi sento fare toc toc sulla spalla e sento un flebile ed educatissimo
"Signora...". Invece dell'acido "Signorina, prego" con cui
rispondo di solito, o del silenzio pietrificato con gli occhi alla Bellatrix
Lestrange, ora mi calo nel ruolo. Tolgo le cuffie e sorrido a 32 denti, stile
maestra il primo giorno di prima elementare. Davanti a me una ragazzina di 13
anni.
"Si?"
"Signora, è già passato il
bus?"
"No, non ancora"
"Grazie signora"
"Figurati... piccola".
La vecchia e savia.
Così matura e posata, che ha
fatto in tempo a passare al supermercato.
E ora ha la borsa piena di
prodotti Kinder.
Maturità, non mi avrai mai per
davvero.
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